trascrizione integrale dell’intervento di Eva Giovannini all’inaugurazione della Scuola d’Europa

VENTOTENE, 1 OTTOBRE 2020

Buongiorno a tutti e a tutte, e grazie per questo invito che mi avete rivolto a riflettere su “il SENTIMENTO dell’Europa”. Partiamo dalle parole. Nel linguaggio contemporaneo la parola ‘sentimento’ evoca emozione, uno stato d’animo, e spesso i sentimenti vengono usati a scopo dialettico da contrapporre alle cosiddette ragioni della ragione.

Eppure, nella radice della parola sentimento – le cui origini risalgono al latino del Medioevo – è ancora riconoscibile il significato di SENTIRE, che anticamente aveva un valore differente da quello di oggi.

Per Leonardo da Vinci il sentimento arrivava direttamente dai nervi ai muscoli, e ancora all’inizio dell’Ottocento, Leopardi considerava sentimenti principali la facoltà del VEDERE e dell’UDIRE: erano quindi considerati sentimenti quelli che noi definiamo SENSI, o la capacità di percepire sensazioni fisiche.

E allora, ho pensato riflettendo su cosa avrei voluto raccontarvi oggi – ripartiamo proprio da lì, da quel vedere e quell’udire da cui gemmano tutti i nostri “sentimenti”.

VEDERE. Si può vedere anche ad occhi chiusi. E se chiudo gli occhi, se chiudiamo gli occhi – azzardo un plurale scommettendo nel comune trauma che certe immagini ci hanno consegnato  – la nostra memoria è ancora piena di medici ed infermieri al terzo turno di lavoro, stremati, in corsia con le terapie intensive sature;

è ancora piena di camion militari con le bare da portare in chiese vuote e senza funerali.

Ma allargando un po’ l’inquadratura e spostando il cursore del tempo un po’ all’indietro, nella memoria di noi europei sono ancora ben visibili le immagini di pensionati greci in fila alle  mense alimentari, o gli ospedali di Atene, senza più attrezzature né medicine.

E ancora, le migliaia di saracinesche abbassate dopo la doppia crisi del 2008 – arrivata dall’America – e quella del 2012, tutta made in Europe. Le famiglie sfrattate a Madrid, i capannoni abbandonati nelle periferie industriali del Veneto o della Piccardia. Abbiamo attraversato anni di scossoni, di terremoti: immagini di ingiustizie indelebili fanno ormai parte del bagaglio comune di noi cittadini europei.

E se restiamo per un attimo in silenzio possiamo invece UDIRE il grido di dolore di uomini e donne in mezzo al mare, in fuga da torture o carestie.

Personalmente, nel silenzio ritrovo incessante il suono della tosse di  migliaia di bambini nei campi di Moria o di Idomeni, con i piedi immersi nel fango e le narici immerse nei fumi delle plastiche bruciate, per riscaldarsi un po’.

Udire e sentire spesso sono usati come sinonimi: eppure noi abbiamo troppo spesso udito senza più sentire, senza lasciarci attraversare dalle conseguenze di quelle grida di aiuto, indifferenti ai destini del prossimo come se fossero altro da noi, e non – invece – lo specchio più veritiero e impietoso della nostra stessa immagine.                              

Non possiamo, qui, oggi, parlare di sentimento dell’Europa se non ripartiamo dall’ammettere, in maniera netta e impietosa, che per troppo tempo siamo stati ciechi e che siamo stati sordi.

Nel 1962 il fisico Thomas Khun nel saggio “La struttura delle rivoluzioni scientifiche” scriveva: “Il significato delle crisi sta nell’indicazione, da esse fornita, che l’occasione per cambiare strumenti è arrivata”. Quello che ci descriveva Khun a proposito della scienza, era quel momento delicatissimo e cruciale del ‘passaggio di paradigma’: ogni volta cioè che le certezze vengono minate da una anomalia, da un evento inatteso che le incrina, è lì che l’uomo di scienza individua la scoperta, la novità, ed è lì che il nuovo paradigma si crea.

Sull’Unione Europea, forse, doveva abbattersi un gigantesco ‘cigno nero’ chiamato Coronavirus, la più inattesa delle anomalie, perché si concretizzasse la possibilità di un cambio di paradigma, almeno nelle regole – ritenute intoccabili – sulla condivisione del debito tra gli stati membri. Serviva uno choc cosiddetto “simmetrico ed esogeno” – cioè uguale per tutti ed esterno a noi, perché ci sentissimo parte di una sola comunità, e cominciassimo a pensare come un solo organismo.

Certo, le resistenze dei singoli Stati sono ancora moltissime, specialmente da parte di quei paesi autodefinitisi “frugali”, convinti della necessita di un’eterna espiazione della colpa da parte dei paesi considerati “peccatori fiscali”, ma noncuranti del loro status di “approfittatori fiscali”, non meno grave.

Eppure, eppure, qualcosa di importante si è mosso. Per la prima volta nella storia dell’Unione europea è passato il principio della mutualizzazione del debito. Un principio – attenzione! – non solo contabile, ma anche e soprattutto politico: siamo tutti nella stessa barca, se affonda uno di noi affondiamo tutti.

Cruciale in questo cambio di paradigma il ruolo della Germania, della stessa Germania guidata da Angela Merkel che fu sorda nel 2014 di fronte ai richiami contro l’austerità e che invece, oggi, si è fatta paladina di quell’asse solidale che ha portato in minoranza gli ortodossi e ha permesso di lanciare il più grande piano di sostegno economico ai cittadini dell’Unione di oggi e di domani, non a caso chiamato NEXT GENERATION UE. La “dottrina di Berlino” ha cambiato segno, l’apologo dei paesi ‘peccatori’ ha perso forza e la Germania ha saltato il fosso, accettando una pur temporanea e limitata condivisione del debito, al fine di far arrivare 750 miliardi di euro nelle economie dei 27 Paesi membri, di cui – solo all’Italia – arriveranno 65 miliardi a fondo perduto. Certo, si tratta di prestiti che l’Unione dovrà contrarre sui mercati e da rimborsare entro il 2058, ma è la prima volta che l’unione europea dice: il debito è di tutti e saremo tutti a ripagarlo, insieme.

Il Consiglio europeo del 21 luglio 2020 entrerà certamente nella storia dell’Unione europea: 68 pagine di conclusioni finali come punto di caduta di 4 giorni difficilissimi di negoziati e trattative.

Era sempre il 21 luglio, ma del 2011, quando sempre un Consiglio europeo partorì invece decisioni gravide di conseguenze pesantissime per molti paesi europei, a partire dalla Grecia. Sono andata a ricercare le dichiarazioni congiunte degli allora Capi di Stato, quattro paginette scarne in cui ricorrono come un mantra le seguenti parole: “contagio”, “privatizzazione”, “rigore”, “sacrifici”, “sforzi senza precedenti”, “competitività”, “mercati”.

Sono passati nove anni e le conclusioni del Consiglio europeo del luglio 2020 non hanno attraversato soltanto una rivoluzione semantica, ma politica. Termini come “protezione”, “resilienza”, “sostenibilità”, erano alieni al lessico europeo degli anni passati, e ne sono invece adesso parole chiave. Eccolo, il cambio di paradigma.

Non solo: per la prima volta nella storia la Commissione europea ha sospeso il patto di Stabilità e il Fiscal Compact, oltre ad aver alleggerito le regole comunitarie sugli aiuti di Stato. Tutti dogmi inviolabili fino a l’altro ieri. Sono cambiate le parole, e sono cambiate le politiche.

Proprio all’indomani di quel tristemente famoso Consiglio europeo del 2011 furono pubblicati due volumi di interventi raccolti durante un inascoltato incontro pubblico a Firenze, il cui titolo era appunto: “Una rotta per l’Europa”. Rileggendo quegli interventi di professori, giornalisti ed esperti, mi ha colpito la lucidità e l’attualità di certe proposte, coraggiose eppure non rivoluzionarie, che vorrei condividere con voi. Leggo testualmente: “Le nostre proposte sono “riformiste”: colpire la finanza con una tassazione forte, (..) reintrodurre il controllo dei capitali (..), ridare fiato agli organismi comunitari, ricondurre la Bce a quelli che dovrebbero essere i suoi fini, riformare un gruzzolo, oggi dovunque scomparso, per la crescita. Crescita vuol dire occupazione, oggi dovunque in calo e sotto intollerabili attacchi salariali (..) e non vuol dire demolire le risorse naturali e l’equilibrio del pianeta”. A scrivere queste parole, che oggi appaiono di buon senso, più che di “sinistra” fu Rossana Rossanda, che ricordiamo a pochi giorni dalla sua scomparsa.

Dalle parole di Rossanda emerge tutta quella che l’economista Federico Caffé definiva “la solitudine del riformista”, perennemente schiacciato come un vaso di coccio tra due vasi ferro: quello di chi vorrebbe cambiare tutto (uscire dall’euro, lasciare la baracca) e gli strenui difensori dello status quo, i pasdaran della linea “there is no alternative”.

E’ paradossale, ma negli ultimi dieci anni, questi due approcci apparentemente antitetici hanno portato l’uno acqua al mulino dell’altro, consegnando l’Europa a una paralisi di fatto.

L’eccezionalità di questa crisi ha portato – restando sempre sul piano del sostegno economico – a una convergenza di strumenti inedita: non solo il Recovery Fund (o Next Generation UE), ma anche le misure a sostegno della disoccupazione, il cosiddetto SURE, che solo all’Italia porterà 27,4 miliardi di euro, o il programma temporaneo della BCE, che acquisterà titoli pubblici con un piano straordinario figlio di quel “whatever it takes” pronunciato da Draghi per salvare la zona euro dalla bufera dei debiti sovrani. E ancora, il fondo di garanzia paneuropeo creato dalla Banca Europea di Investimenti, e infine il Mes, che in Italia è oggetto di dispute ideologiche, ma che ci consentirebbe di ricevere 36 miliardi di euro, a tassi agevolati, da spendere nel settore sanitario, pilastro di quel welfare state che gran parte del mondo ci invidia.

E allora, tutto bene? Tutto perfetto? Certo che no. Ma quella che stiamo attraversando è una gigantesca opportunità. Per dimostrare di avere fiducia gli uni negli altri, oggi, e verso le prossime generazioni. Eppure tutto perfetto non è se già il dibattito è egemonizzato dal veto di quei Paesi che, pur avendo sottoscritto l’accordo a luglio, stanno già frenando la macchina di approvazione del Bilancio europeo – fortemente interconnesso con il Recovery Fund, che dovrà essere ratificato dai vari parlamenti nazionali: sono i paesi del gruppo Visegrad, infastiditi dal fatto che la Commissione per la prima volta ha legato i finanziamenti al rispetto di quei check and balance fondativi delle nostre democrazie. Per capire di cosa stiamo parlando, prendiamo la riforma della giustizia in Polonia, ad esempio.

La legge voluta dal governo ultraconservatore per ridurre i poteri della magistratura e renderla subalterna al governo è stata considerata incostituzionale dalla Corte Suprema polacca; contraria al diritto dell’unione dalla Corte di Giustizia dell’unione europea; sanzionata dal Consiglio d’Europa e, infine, il CSM polacco è stato espulso dai consigli superiori della magistratura europea perché non più indipendente. Anche il Parlamento e la Commissione europea, per quello che rientra nelle loro prerogative, hanno stigmatizzato la riforma liberticida del governo polacco, proponendo giustappunto il blocco dei fondi europei a chi non rispetta lo stato di diritto. E l’Ungheria? L’Ungheria non è da meno, vista la stretta liberticida data dal primo ministro Orbàn che, in piena pandemia, ha fatto approvare una legge speciale che, di fatto, gli conferisce “pieni poteri” fino alla fine dell’emergenza.

La presidenza tedesca ha adesso un non semplice ruolo negoziale e ci auguriamo vivamente che faccia valere le ormai numerose denunce da parte di organismi internazionali nei confronti del governo magiaro, e ne cito una su tutte, elogiatissima e subito dimenticata: il “rapporto Sargentini”, approvato dal Parlamento Europeo nel settembre 2018. Con il rapporto Sargentini si chiedeva l’attivazione del famigerato articolo 7 del Trattato sull’Unione – con il quale si può sospendere il voto in Consiglio del Paese accusato di non rispettare i principi cardine dell’Unione.

Nello specifico, nel rapporto approvato dal Parlamento a larga maggioranza – persino da metà dei membri del PPE di cui il partito di Orbàn fa parte –  si producevano prove di violazioni da parte di Budapest nei seguenti ambiti:

  • indipendenza della magistratura
  • libertà di espressione
  • libertà di religione
  • libertà di associazione
  • libertà accademica
  • diritti delle minoranze etniche
  • diritti dei richiedenti asilo e dei rifugiati

… e l’elenco continua… andate a riprendere quel report, che è pubblico, e guardate nel merito di ogni singolo punto quali evidenze sono state prodotte. Da giornalista che ha viaggiato in Ungheria per lavoro, vi assicuro, non si respira un bel clima, lì. Non ci si sente liberi di lavorare serenamente in quel Paese.  E dà inquietudine sapere che siamo in un Paese europeo. Certo, direte voi, Malta non è da meno da questo punto di vista, come ci ricorda l’assurda morte della giornalista Daphne Caruana Galizia, e infatti Malta nel rapporto redatto in questi giorni dalla Commissione sullo Stato di Diritto risulta il Paese con maggiori “capi di imputazione”.

Ma torniamo adesso al Recovery Fund.

A buttar sabbia nell’ingranaggio, infatti, ci sono anche i quattro “frugali” (Austria, Paesi Bassi, Danimarca e Svezia), sostenuti dalla Finlandia, che tirano il freno perché temono di dover sborsare più soldi e non vogliono veder cancellati i cosiddetti “rebates”, gli sconti di cui godono sulla loro quota contributiva del bilancio. L’Italia, al pari della Spagna e gli altri principali beneficiari del piano, rischia di pagare fortemente il prezzo di queste prove di forza affiorate subito dopo gli annunci di luglio. La prima tranche di aiuti, a oggi prevista per il secondo trimestre del 2021, finirebbe per slittare nella seconda metà del prossimo anno, con buona pace di imprese e famiglie.

In queste settimane, però i meccanismi di funzionamento basati sull’unanimità su cui si regge la regolamentazione comunitaria, hanno bloccato l’Unione anche su un altro fronte, geopolitico, quello bielorusso. Tutta l’Europa si è commossa nel vedere la resistenza intelligente e agguerrita di migliaia di donne contro il governo di Minsk. Eppure è bastato che un solo paese – Cipro – facesse valere il proprio diritto di veto per bloccare il pacchetto di sanzioni, dopo le elezioni farsa dello scorso agosto e la brutale repressione degli oppositori politici da parte dell’autarca Alekandr Lukashenko. E poco importa se Cipro era anche d’accordo, nel merito, con le sanzioni alla Bielorussia: il potere di veto l’ha esercitato comunque, per ricordare alla comunità internazionale che se ha la forza di condannare Lukashenko, allora deve condannare anche Erdogan, fautore di una politica aggressiva in quel  Mediterraneo orientale di cui Cipro è avamposto per storia e per geografia. Quindi, di nuovo, un passo avanti ed uno indietro.

Ecco perché il richiamo della presidente Von Der Lyen al superamento del voto all’unanimità in Consiglio a favore di un voto a maggioranza qualificata assume particolare importanza, almeno sulle questioni legate alle sanzioni e allo stato di diritto.

Eppure, anche su questo punto, si scontrano punti di vista contrapposti, sebbene entrambi legittimi. Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, alla vigilia del Consiglio che si apre proprio oggi, ha fatto sapere che la rinuncia all’unanimità è una “falsa buona idea”, perché è proprio l’unanimità – sostiene Michel – a garantire l’adesione durevole dei 27 Paesi alle strategie deliberate da tutti. Sempre che di qualche strategia si disponga, mi viene da dire, perché sulla politica estera l’Unione ha spesso avanzato in ordine sparso. Ma proprio il Consiglio di oggi sembra aprirsi con parole d’ordine di consapevolezza del nostro peso nel mondo, e la necessità di una maggiore “autonomia strategica europea”, come l’ha definita Michel. Il mondo non ci sta a guardare: Paesi come Cina, Turchia o Russia hanno tutto da guadagnare da un’Europa titubante e molle, sia sul fronte economico – se svendiamo l’accesso al nostro grande mercato – sia sul fronte culturale – ogni volta che non fissiamo in alto la barra del rispetto dei nostri valori e dello stato di diritto.

Dicevamo, all’inizio, a proposito dei ‘sensi’ e dei ‘sentimenti’ per l’Europa, che dobbiamo esercitare l’udito. Ascoltare le voci dei migranti non significa adempiere ad un vuoto dovere retorico, ma   significherebbe restituire all’Europa quel primato politico e sociale che la rende capace di trasformare in diritto positivo, in norme vincolanti, gli altrimenti vuoti appelli alla difesa dei “diritti umani”.

Facile a dirsi, quasi impossibile a farsi.

Riavvolgiamo il nastro: quante volte abbiamo sentito – già durante la presidenza Junker – mirabolanti annunci di governance comune sul tema migratorio? La verità è che sull’immigrazione, molto più che in altri ambiti, gli Stati sovrani esercitano il loro potere e, sovranamente, si mettono i bastoni tra le ruote. Vi ricordate il famoso vertice de La Valletta, esattamente nel settembre dello scorso anno? Ebbene, venne salutato dalle opposte tifoserie come rispettivamente “una sòla, una fregatura, che accontenta solo gli scafisti” (Matteo Salvini) e come un “passo avanti storico, che non era mai successo prima” (parole di Giuseppe Conte II). A un anno di distanza possiamo dire che nessuno dei due aveva ragione, ma che, di certo, gli opposti storytelling hanno contribuito a gettare fumo negli occhi di chi osserva, invece di capire cosa succede davvero ai nostri confini e alla vita di chi, per spinta vitale o per disperazione, prova a valicarli.

L’accordo di Malta prevedeva il ricollocamento automatico entro quattro settimane dallo sbarco per le persone soccorse in alto mare e riguardava tutti i migranti che avrebbero fatto richiesta di protezione, e non solo quelli con più possibilità di ottenerla (come invece funzionava per il meccanismo volontario proposto nel 2015 dalla Commissione Europea).

Ma c’era un MA: la redistribuzione era obbligatoria solo per i Paesi che avrebbero aderito all’accordo. Pochissimi paesi vi hanno aderito e l’accordo è restato lettera morta.

Poche settimane fa Ursula Von Der Lyen, durante il suo primo discorso sullo stato dell’Unione, ha fatto un annuncio che ha meritato i titoli di apertura di molti quotidiani europei: “Aboliremo il trattato di Dublino e lo sostituiremo con un nuovo sistema di governance europeo sulle migrazioni. Avrà una struttura comune su asilo e rimpatri e un nuovo meccanismo di solidarietà forte”. Pochi giorni dopo, quando ancora l’odore acre degli incendi avvolgeva i centri di “accoglienza” di Moria, sull’isola di Lesbo, ecco che la Commissione presenta il tanto atteso “Patto sull’immigrazione e l’Asilo”, accompagnato dalle seguenti parole del vicepresidente della commissione Margaritis Schinas (quello che aveva accettato la delega all’immigrazione con la dicitura “per proteggere il nostro stile di vita”..), dicevamo, Schinas ha annunciato che con il nuovo Patto, il regolamento di Dublino sarà superato in favore dell’introduzione di un cosiddetto “meccanismo di solidarietà obbligatoria”. Ma guardiamo meglio come si declina questa peculiare idea di solidarietà. Con le nuove regole, in sostanza, i Paesi che non avranno intenzione di accogliere i richiedenti asilo nei propri confini, potranno optare per la return sponsorship, cioè potranno scegliere di  “aiutare” i Paesi di prima accoglienza a rimpatriare un numero di richiedenti asilo pari a quello di coloro la cui richiesta di protezione è stata negata. In alternativa, potranno aiutare a finanziare centri di accoglienza nei Paesi di primo ingresso o programmi di sviluppo nei Paesi di origine. Insomma,  definiamo “solidarietà” il fatto che i Paesi membri sponsorizzino l’espulsione di persone dal territorio europeo.

Il nuovo sistema dunque non scardina il principio base del regolamento di Dublino, cioè quello del primo Paese di approdo, oltre a non fissare né delle quote obbligatorie di ricollocamento dei richiedenti asilo all’interno dell’Unione europea, né sanzioni per chi vi non aderisce. Date queste premesse, non stupisce che non siano state previste strategie a lungo termine per regolare l’ingresso in Europa da Paesi terzi.

Se non si ribalta prospettiva e si continua a rimandare la creazione dell’unica e sola cosa necessaria, e cioè una struttura sovranazionale per gestire le richieste di asilo in tutto il continente, i politici continueranno a fare annunci vuoti e noi giornalisti titoli che già il giorno dopo sono buoni per incartare il pesce.

Tra due giorni ricorderemo il naufragio di Lampedusa, in cui nel 2013 morirono 368 persone, con cerimonie solenni e dichiarazioni altisonanti. Eppure quei morti, e le altre migliaia che da allora sono seguiti, non saranno onorati dai nostri riti stanchi, ma – eventualmente – da un colpo di reni politico e normativo che invece stentiamo ad avere. Perché, anche se i cosiddetti sovranisti non hanno lanciato la promessa o.p.a. sull’Europa (perdonatemi la rima), su questo fronte la loro cultura è comunque diventata egemone, se la parola “solidarietà” non ha più come oggetto i migranti, ma i Paesi (!) che di questi ultimi dovrebbero sbarazzarsi. Cioè: non è verso i vulnerabili e i più deboli che dovremmo essere solidali, ma verso gli Stati che non vogliono o non possono accoglierli.

Ha prevalso, purtroppo, la cultura del limes – del confine inteso come fortezza – invece che quella del limen, che nella soglia vede il ponte, il passaggio, l’incontro. E finché le frontiere degli Stati membri resteranno chiuse, la questione migratoria resterà aperta.

Recentemente mi sono trovata a rileggere alcune pagine di un saggio di Romano Benini, dal titolo “Destini e Declini”, in cui in professor Benini confronta l’Europa di oggi con l’Impero romano e riflette sulla differenza tra la ‘crisi’ di un sistema e il suo ‘declino’. Una crisi si ha solitamente quando intervengono fattori esterni o economici, mentre sono sempre culturali le motivazioni che portano al declino. L’identità degli europei – scrive Benini – sta principalmente nell’avere nell’ “altro” il proprio punto di vista. C’è un mito greco che spiega bene perché «l’altro» sia importante. Il daimon, il nostro demone o meglio il nostro genio, rappresenta nella filosofia greca la coscienza di sé, il nostro carattere più profondo, che si manifesta in primo luogo nell’incontro con l’altro. E’ l’altro, dunque, che ci mostra il nostro daimon, e questo atteggiamento, questo modus assume nell’antica Roma una vera e propria dimensione politica perché l’atteggiamento culturale diventa un grande motore di espansione, e Roma diviene anche il luogo dell’asilo e dell’incontro dei rifugiati, degli esclusi e degli emarginati. Non a caso il primo europeo e occidentale – prosegue Benini – è Ulisse, che Omero ci racconta come espressione di una vita di incontri e di relazioni, di ricerca del sé attraverso l’altro. Una delle più grandi invenzioni della cultura europea è il concetto greco-romano di eudaimonia – ovvero la condizione di benessere che deriva dalla soddisfazione dell’individuo nella sua relazione con gli altri.

L‘Eudaimonia come manifesto politico del “prendersi cura” del proprio genio, del proprio benessere, e di quello altrui, così strettamente interconnessi. E una identità non esclude l’altra, anzi.

Mutatis i molti mutandis, il politologo britannico Colin Crouch attualizza questo concetto antico e – nel suo pamphlet sulla globalizzazione e il nazionalismo (Laterza) – conclude che “vivere nel ventunesimo secolo significa proprio gestire identità multiple, che vanno dal sentirsi radicati in una piccola comunità fino a raggiungere la dimensione transnazionale”.

Un presidente della Repubblica che personalmente ho molto amato, Carlo Azeglio Ciampi, europeista come pochi e legatissimo al tempo stesso alla sua terra d’origine, era solito ricordare  che non c’era alcuna contraddizione in lui nel definirsi fieramente livornese, toscano, italiano ed europeo. E proprio l’Europa fu protagonista nel suo storico discorso alla nazione, la notte del 31 dicembre del 2003 quando disse : “Noi abbiamo un sogno. Un sogno nato negli anni feroci dell’ultima guerra civile europea, e oggi è più vivo che mai. Passo dopo passo quel sogno si sta realizzando: Unione Europea significa pace in Europa”.

Europa quindi come patria delle identità multiple e come guscio di pace tra nazioni sorelle.

E in questo incredibile anno 2020, ricorre un importante anniversario, che non posso mancare di ricordare con voi, oggi: i 70 anni della dichiarazione Schuman, che ha sancito la nascita dell’Unione e quel destino di pace che il presidente Ciampi evocava.

Aveva la voce grave e densa di emozione Robert Schuman quando alle ore 18, di quel 9 maggio del 1950, prese la parola nel Salon de l’Horologe del Quai d’Orsay di Parigi e disse, nel preludio di quella che diventerà la sua più famosa Dichiarazione che dette vita alla Comunità europea del Carbone e dell’Acciaio: “Signori, è finito il tempo delle vane parole. Occorre agire. Ma con un’azione coraggiosa, un’azione costruttiva”.

Aveva la voce grave e densa di emozione anche Liliana Segre, quando lo scorso 29 gennaio davanti all’emiciclo gremito dell’Europarlamento ha scandito la frase definitiva: “A dispetto dei programmi di qualcuno, io, esisto. E anche questo Parlamento”.

Ecco. Perché ho accostato queste due dichiarazioni? Perché il genocidio nazista, il coraggio della visione di Schuman – la sua consapevolezza che “l’Europa non si fa in un sol colpo”, ma che occorre procedere, e rapidamente, verso l’integrazione – e poi la nascita, molti anni dopo, del Parlamento europeo…E’ tutto collegato. E ci voleva un uomo di frontiera come Schuman – nato tedesco e poi diventato francese – per capire l’importanza di una visione di lungo termine, che superasse gli steccati nazionali, gli egoismi, i risentimenti, seppure legittimi. Ci volevano uomini di frontiera come del resto erano anche Adenauer, renano, De Gasperi, trentino, per capire che le frontiere andavano abbattute, superate. Per parlare di pace e di solidarietà.

Siamo qui, ho l’onore di essere qui in mezzo a voi, oggi, in questa isola di lunghi esili, per riflettere su ciò che resta del sentimento di quel “Progetto europeo” concepito da una generazione di uomini cui rimbombava ancora nella testa il rumore delle bombe della seconda guerra mondiale.

Di carbone e di acciaio oggi forse si parla meno, o forse se ne parla in modo diverso: più che la produzione del carbone infatti oggi ci accomuna il condividere una strategia per limitare i danni ambientali che i combustibili fossili creano. Dalla Comunità europea del Carbone e dell’Acciaio alla Carbon tax, cambiano le urgenze, ma il metodo individuato allora è quantomai necessario e prezioso. Sentirsi parte di una unica, variegata famiglia, condividere i progressi e fare fronte comune rispetto ai rischi. Allora fu un “salto nel buio”, come disse improvvidamente Schuman rispondendo ad un giornalista presente in sala, oggi sappiamo che è grazie a quel salto, alla loro determinazione e lucida follia, che siamo ancora quella zattera di benessere, democrazia e di pace in un mondo che è sempre più mare in tempesta. “L’Europa non si farà in un sol colpo” diceva Shuman. Certo, e neanche sarà possibile demolirla in un sol colpo.

E permettetemi: le ragazze, le donne, noi donne, in questo sforzo di protezione e di rilancio avremo un ruolo importantissimo. Non penso sia del tutto una coincidenza che il più coraggioso programma di aiuti comunitari arrivi quando al vertice delle istituzioni europee ci sono tre donne: Angela Merkel – presidente di turno del consiglio europeo – Christine Lagarde – a capo della BCE – e Ursula Von Der Lyen, presidente della Commissione. Sono donne che allargano la già nutrita e pur dimenticata serie di “madri” dell’Europa, donne che a vario titolo hanno contribuito a fare di questo continente un luogo prospero e libero – ne cito solo alcune: Anna Valentynowicz, Simone Veil, Ada Rossi, Sofia Corradi e naturalmente, Ursula Hirshman. E proprio la Hirschman a metà degli anni settanta scrisse parole di straordinaria attualità, che vorrei condividere con voi: “Alcuni circoli femministi si domandano: che cosa può dare l’Europa alla causa delle donne? Effettivamente in tempi normali vi sarebbero alcune richieste da avanzare, ma è l’approccio in sé che è urtante  – scrive Hirschman – data la crisi europea e globale nella quale stiamo, nella quale bisognerebbe rovesciare la domanda e chiedersi: che cosa noi donne possiamo fare per l’Europa, per la sua sopravvivenza in questa crisi?”. Questa domanda vale ancora oggi, e fa bene al cuore vedere sempre più organizzazioni femminili nate in questi anni non solo per fare sacrosanta pressione su temi come la gender equality e la difesa dei diritti civili che alcuni stati europei vorrebbero cancellare, ma nate anche con una profondissima spinta europeista, perché parità di genere e Unione europea sono la stessa cosa, sono figlie della stessa cultura liberale, laica, democratica e illuminista. E non dobbiamo mai dimenticarlo.

Milan Kundera nel 1983 scriveva: “europeo è colui che ha nostalgia dell’Europa”, cogliendo così una inclinazione e al tempo stesso un rischio di noi europei, che ci sentiamo parte di questa casa chiamata Europa solo quando rischiamo di perderla. Ecco: poiché la nostalgia è un sentimento, e il sentimento per l’Europa è il cuore di questa mia riflessione, allora diamoci da fare, ognuno nel suo piccolo, a scuola, al bar, o nelle redazioni, per essere terminali di un messaggio di fiducia e attivatori di quella VISTA e di quell’UDITO senza i quali il sentimento muore e, con esso, anche l’Europa.

@evagiovannini