Era rientrato in Italia da meno di un mese e stava già per ripartire, per un nuovo incarico all’ambasciata di Riad, Arabia Saudita. La foto che lo ritrae mentre prende in consegna un bambino per portarlo in salvo in Europa, via dall’Afghanistan di nuovo in mano ai talebani, aveva fatto il giro del mondo. Si parlava di lui come di un eroe, rimasto a presidiare la postazione italiana all’aeroporto di Kabul cercando di salvare quante più persone possibili aprendo loro la porta d’Europa, là dove i diritti individuali sono protetti e garantiti.

Alla commissione del Premio La Chiave d’Europa, che l’associazione La Nuova Europa promuove insieme al Comune di Ventotene, è sembrato naturale assegnare al giovane Tommaso Claudi, 31 anni appena compiuti, il prestigioso riconoscimento per l’anno in corso. Il suo straordinario impegno a favore del rispetto dei diritti civili e della libertà, temi incardinati nell’idea stessa di Europa che l’associazione promuove per statuto, può servire infatti da splendido esempio per i molti giovani che frequentano la Scuola d’Europa. La Farnesina ha accolto la proposta di buon grado e, con grande efficienza, ha organizzato la consegna del Premio in una settimana. Una cerimonia molto di sostanza, con i rappresentanti delle principali istituzioni e alcuni studenti della Scuola d’Europa. Poche parole di rito e una breve intervista con uno di loro, Pietro Forti, sul significato del suo impegno.

Il Premio La Chiave d’Europa è simbolo della profonda stima che La Nuova Europa e i ragazzi della Scuola d’Europa provano nei confronti del tuo lavoro e del lavoro delle istituzioni italiane. Senza i valori di fratellanza, che abbiamo visto nelle immagini di quel momento drammatico, non c’è integrazione europea, e lo scatto che ti ritrae è uno spiraglio di luce. C’è qualche particolare momento che ti ricordi, oltre a quello che è stato immortalato? Quante persone sei riuscito a portare in salvo?

Intanto, grazie mille per le tue parole. Nel mio caso, sono tante le immagini che mi porto dentro e che mi accompagneranno per lungo tempo, le esperienze e le scene anche drammatiche a cui ho assistito. Penso però che più dell’esperienza personale quello che valga veramente la pena sottolineare è il risultato che l’Italia complessivamente ha raggiunto grazie all’operazione in aeroporto a Kabul, che è durata dodici giorni, in un contesto molto difficile: circa 5.000 persone civili afghane portate in sicurezza in Italia. Un risultato che è stato possibile conseguire solo grazie al lavoro di squadra di tutte le istituzioni coinvolte, con il contributo di tantissime donne e uomini che hanno reso possibile il successo dell’operazione. Questo vale per chi era sul campo a Kabul e per chi dall’Italia ha coordinato e lavorato.

Sono molto onorato di ricevere questo Premio e sono grato al sindaco Santomauro e al dottor Sommella per questo riconoscimento. Penso di interpretare anche il sentimento dei promotori se dico che è un tributo a tutte le istituzioni e a tutte le persone che hanno reso possibile quest’operazione. A me viene in mente, per esempio, il lavoro in aeroporto a Kabul dei militari guidati dal generale Portolano e dal generale Faraglia sul campo. Io ho avuto il privilegio di osservare molto da vicino il loro lavoro e di vedere come questo lavoro ha permesso appunto non solo il raggiungimento dell’obiettivo che ci eravamo tutti prefissati, cioè di portare in sicurezza il numero più alto possibile di cittadini afghani, ma anche di andare al di là delle aspettative, al di là di quello che si riteneva possibile all’inizio. E poi non posso non menzionare il lavoro dei Carabinieri, con particolare gratitudine e anche affetto perché, oltre a distinguersi nelle operazioni di salvataggio e di recupero dei cittadini, hanno permesso a me di fare il mio lavoro garantendo la mia sicurezza 24 ore su 24. Per quanto riguarda invece la Farnesina, devo sottolineare come il successo di quest’operazione è stato il risultato di una lunghissima attività di preparazione e di coordinamento con i partner internazionali, che è iniziata ben prima in realtà della crisi, su input del ministro Di Maio, e che è stata guidata da Roma dal Segretario Generale Ettore Sequi e portata avanti a Kabul dall’ambasciata e dall’ambasciatore Sandalli. Ecco, io direi che il mio lavoro è stato la prosecuzione naturale di quest’importante attività preparatoria.

In quelle ore spingersi così tanto con una mano tesa verso un popolo non era semplice né scontato, e soprattutto sembra estraneo a certe pulsioni politiche, più che umane. Qual è stata la motivazione delle istituzioni italiane che sono riuscite a portare avanti questo lavoro di salvataggio e di aiuto del popolo afghano?

A dire la verità, credo che questo sia il primo momento in cui ragiono su questa motivazione. Sul posto questa domanda non ce la siamo mai fatta ma abbiamo capito, sin dai primi giorni, quando si profilava questa crisi umanitaria importante tra il 15 e 16 agosto, che ci saremmo trovati a fronteggiare una situazione fuori dall’ordinario. Penso di poter parlare per tutte le persone presenti quando dico che abbiamo semplicemente dato per scontato che quello sarebbe stato il nostro dovere, e quindi non ci siamo mai chiesti veramente perché lo facciamo. Ci siamo chiesti spesso come: come possiamo fare di più, come possiamo fare meglio, come possiamo trovare soluzioni per i problemi che dobbiamo affrontare. Chiaramente vedere scene di grande disperazione e grande dolore ci ha reso solo più convinti che questa fosse la strada. Direi che si è trattato, nel nostro caso, di una declinazione, in circostanze certamente eccezionali, del normale spirito di servizio di chi rappresenta le istituzioni e di chi lavora per lo Stato, che poi è lo stesso con cui le mie colleghe e i miei colleghi tutti i giorni si trovano ad affrontare situazioni complesse in giro per il mondo, spesso lontano dalla luce dei riflettori e dalla risonanza mediatica che la crisi afghana ha suscitato.

Il Ministero degli Affari Esteri, da non molti mesi, è diventato anche Ministero della Cooperazione Internazionale, fattore fondamentale per far capire a un cittadino europeo che si trova fuori dall’Europa la fortuna che si ha a vivere in uno spazio comune dove la tutela è e deve essere centrale. La pensi così, anche alla luce della tua esperienza?

È una domanda che tocca un tema particolarmente importante, e che richiede una risposta anche di carattere personale. Io posso dirti che, fin dai primi giorni, mentre si svolgeva l’operazione, una delle parole che mi è venuta più spesso in mente è stata la parola fortuna. La fortuna di alcuni, come me e te, di nascere in uno spazio comune caratterizzato dai diritti dei singoli, in una situazione di privilegio, e la sfortuna di chi nasce altrove e deve affrontare situazioni ben più complesse. Penso che questo sia un concetto che intuiamo tutti, ma vivere questo tipo di situazioni lo fa percepire in maniera molto concreta, direi quasi violenta. Quindi assolutamente sì, la penso anche io così.

E credo che l’impegno italiano per l’Afghanistan, che continua non solo per mano delle istituzioni ma anche insieme alla società civile e al settore privato, sia il modo migliore di onorare questo debito, se lo vogliamo chiamare così. Tenendo a mente il significato di questo Premio e l’impegno europeista dei suoi promotori, l’esperienza in aeroporto a Kabul è stata anche e soprattutto un esempio di solidarietà europea. I rappresentanti dei singoli Paesi e quelli della delegazione europea, tra cui diversi funzionari italiani, hanno lavorato per quei dodici giorni come una squadra, e come una squadra hanno raggiunto un risultato complessivo di gran lunga maggiore rispetto alla somma di quello che i Paesi avrebbero potuto fare singolarmente. Questa, al di là di considerazioni di carattere politico, credo sia una delle lezioni più importanti da trarre da questa storia.