Ecco il testo scritto da Lidia Ravera per il Ventotene Europa Festival
Chi, come me, è nato nella prima metà degli anni 50, ha conservato sul 1968 uno sguardo alquanto particolare. Un punto di vista eccentrico: il punto di vista, lo sguardo, dell’adolescente.
Vuol dire, grosso modo, una intelligenza dei fatti più emotiva e biografica che politica o storica.
Chi aveva 16 o 17 anni nel 68 è stato segnato dall’anno della ribellione studentesca più di chiunque altro. Proprio a motivo dell’età.
Il momento in cui sgusci fuori dall’infanzia è il momento cruciale della tua formazione di adulto. Chi era adolescente nel 68 ha avuto a disposizione un moltiplicatore di adolescenza e, contemporaneamente, ha vissuto un’accelerazione di maturità.
Eravamo assolutamente fieri della nostra estrema giovinezza e nello stesso tempo ci siamo sentiti precocemente maturi, perché protagonisti della storia e della cronaca, perché eravamo in molti già fuori di casa, lontano dalla famiglia, contro e fuori, moralmente, materialmente. Quindi grandi, indipendenti. A costo di morire di fame.
Grandi, dunque. Però giovanissimi, “ragazzini” come nella poesia di Elsa Morante “Il mondo salvato dai ragazzini” (Einaudi-1968). Ragazzini perché incantati dalla sensazione dominante dell’infanzia: la meraviglia di fronte alle infinite possibilità del cambiamento. Si smascherava tutto il vecchio, le dinamiche e le regole di una società classista, patriarcale, ingiusta e si credeva fermamente nella possibilità di distruggere, e sostituire tutto ciò che era sorpassato o inadeguato o iniquo, con qualcosa di giusto e di nuovo.
Si faceva coincidere il potere nelle sue varie forme, dalla fabbircaall’università alle accademie, con il padre e si procedeva collettivamente ad un allegro parricidio rituale.
Gonfiando a dimensioni storiche e di massa quello che è il percorso individuale di ogni essere umano quando la pubertà lo scaglia nel mondo degli altri, fuori dal riparo della famiglia, e per celebrare il distacco ha bisogno di ridimensionare mamma e papà, ha bisogno di vederli più piccoli e più brutti, un po’ ridicoli, fallibili, umanamente grotteschi e vecchi e banali.
Abbiamo costruito una caricatura di “adulto”, abbiamo provato a detestare tutti “i grandi”, con poche eccezioni.
È così che si succedono le generazioni: trasformando i padri e le madri in macchine da rottamare, da superare, da lasciare indietro.
Questa era, per noi, a 17 anni, una verità indiscutibile.
Metterla in pratica non era facile. Ci è costata una gran fatica.
Questa fatica individuale, che ogni generazione ha compiuto in solitudine, con l’anima che arranca dietro un corpo che sta cambiando, noi, noi nati in quegli anni, abbiamo avuto la fortuna di compierla insieme ad altri a noi simili (non tutti, non basta essere nati fra il 1943 e il 1955 per aver “fatto il 68”, ma molti) e questo ci ha permesso di sostanziarla fino a farle assumere una valenza politica.
Questo ci ha fatti sentire meno soli e meno deboli.
Io me la ricordo quella sensazione. Mi facevo forte del numero.
Infatti è stato l’unico periodo della mia vita in cui sono stata conformista.
Volevo essere come gli altri, perché erano “i migliori”
È così, ci sentivamo i migliori , migliori perché più giovani in una subcultura che santificava l’innocenza dei principianti.
Migliori perché, invece di divertirci, come è priorità massima di tutti i ragazzi, ci occupavamo delle sorti del mondo.
Ci sentivamo giovani ma più grandi della nostra giovinezza, perché stavamo mettendo mano alla storia di tutti e non soltanto alla nostra.
Scrive Gad Lerner, giornalista e conduttore televisivo (classe 1954): “Invidiavo mia sorella maggiore che ascoltava musica nuova e vestiva trasgressivo e lasciava intravedere la possibilità di una condizione esistenziale altra, non solo dall’infanzia ma anche dal conformismo adulto”.
Anch’io avevo una sorella maggiore. Fu lei a portarmi alla prima manifestazione antiimperialista, contro la guerra in Vietnam. La seguivo come un’ombra.
Loro, i fratelli maggiori, Petre Schneider, Rudy Dutschke, Guido Viale…erano i nostri modelli.
Modelli di adulti alternativi.
A padri madri professori maestri e intellettuali.
Segnalavano la possibilità che diventare grandi non volesse dire mettersi la cravatta e indossare opinioni conformi al pensiero dominante.
Si poteva non essere ipocriti, beneducati, vili, carrieristi, attaccati al denaro, egoisti, formali, si poteva non indossare un costume.
E diventare grandi lo stesso.
Nel 1968 andò fuori legge il parrucchiere, il vestito buono, il privilegio di poterselo comprare. Dovevamo essere tutte uguali e quindi la diversità saltava agli occhi.
Che cosa c’è di più pericoloso di non poter truccare le carte? Nel 1968 dovevamo essere tutte belle naturali. Senza inganno. Il contrario esatto di ciò che accade oggi, che tante ragazze si rifanno i seni a 18 anni e le loro madri si tirano la pelle della faccia. Dovevamo sembrare sempre appena sveglie, appena scese da una barricata, i capelli acconciati dal vento.
Nessuno ci pensa mai, ma l’estetica contemporanea, quel fritto misto di scarpe basse e tute felpate e jeans e maglioni e magliette cortine e parka e montoni, nasce allora. È allora che si smettono i cappottini, i tailleur, le cravatte, le giacche uguali ai pantaloni, i pantaloni con “la piega”, il filino di perle, il girocollo di cachemire, i bigodini…Nasce, lo stile “casual”, per motivi ideologici: i vestiti belli sono altrettanti simboli della classe di appartenenza, vanno banditi. Non ti vestirai mai come tuo padre e tua madre. Nasce allora la divisa del giovane povero. E’ lecito il mercatino, l’usato, il reciclato. Non bisogna mai, per nessun motivo, farsi beccare con dei soldi addosso.
Questa è la regola.
La lotta contro le apparenze e il culto del decoro piccolo borghese divenne, in quegli anni, un must.
Ricordo l’insicurezza dell’età, quando non sai quanto vali e hai continuamente bisogno che siano gli altri a conferirti valore. Volevo essere bella. Dovevo, per la verità, essendo il peso delle ragazze nella politica, cioè nella vita associativa, calcolato secondo avvenenza. Dovevo essere bella. Ma non potevo farmi scoprire mentre corteggiavo quest’ambizione. Cambiare pettinatura? Mai, venivi sfottuta. Dovevi essere perfetta e innocente, bella d’una bellezza non cercata, come quella dei bambini.
Faticoso.
Non fossi stata un’adolescente l’avrei patito meno, quell’improvviso cambio delle regole del gioco. Dovevi essere bella “di natura” e dovevi essere anche libera nei costumi, perdere la verginità prima possibile, fare l’amore con incauta passione, goderne moltissimo, senza remore, senza incertezze, senza problemi, accettare chiunque perché (e purché) “compagno”, sperimentare in piena libertà la “piena libertà”, non essere gelosa, possessiva, lamentosa o ricattatrice. Non dovevi assolutamente amare tuo padre e tua madre, non potevi essere obbediente, dovevi criticare, criticar-ti, lasciarti criticare. Era un decalogo eccedente le scarse forze della prima giovinezza, una regola dell’irregolarità, non facile da seguire. Faticoso, appunto.
Però, fuori da ogni tentazione di glassare il passato, che scuola di vita, quegli anni!
Ciascuno doveva adeguarsi alla sperimentazione di nuove forme: alla famiglia sostituire il gruppo, alla “compagnia” come si chiamava allora, il collettivo, al “bildungroman” della propria evoluzione di esseri umani, un corso di formazione accelerato che doveva fare di noi, ex-bambini, i militanti della rivoluzione.
Scrive Eugenio Scalfari su “L’Espresso” il 3 marzo del 1968
“Non passa giorno senza che la cronaca non registri l’occupazione d’una facoltà…gli studenti vogliono la riforma dell’Università, che finisca la guerra in Vietnam, vogliono il potere studentesco, vogliono la rivoluzione, sono contro L’America, contro la civiltà dei consumi, contro i partiti, contro il governo, contro il sistema, la loro è una contestazione globale al sistema”.
Ancora da L’Espresso, 11 febbraio 1968:
“ma si tratta soltanto di un movimento studentesco? Assodate le responsabilità di chi non ha voluto un’università moderna (gli universitari di famiglia operaia o contadina sono soltanto il 14% del totale, i laureati figli di lavoratori dipendenti sono l’8,1%) resta il dubbio di trovarsi di fronte a qualcosa di più vasto e profondo”.
Ogni giorno, nell’età della formazione, si apriva con uno sguardo sul mondo. Ci si obbligava a leggere russi morti (Lenin, Trockij, Bakunin) ci si interrogava l’un l’altro sul rapporto avanguardia–massa, sulla rivoluzione permanente, sull’anarchia, ci si obbligava a pensare paesi lontani, altre povertà, altre schiavitù: Franz Fanon, “I dannati della terra”. Il Vietnam. Si cercava di farci piacere la Cina, Mao tze tung, la rivoluzione culturale, la tracotante semplicità dei pensierini rossi. Si cercava di leggere Marx (mia sorella Mara leggeva tutto, dai Grundrisse al Capitale, io arrivai fino al “Manifesto del partito comunista”).
Si andava davanti ai cancelli della Fiat, al mattino presto, con una bracciata di volantini di cui si era cercato, faticosamente, di percepire il senso, e li si distribuiva a quelle mani spesse, a quelle facce diverse, quelli più bravi “facevano i capannelli” e lì, in quelle costruzioni raccolte di corpi umani protesi l’uno verso l’altro, organizzavano discussioni sul cottimo, sulla busta paga, sul taglio dei tempi, sul disagio-linea, sulla scala mobile, sulle categorie, sul sindacato.
Al cambio turno, al pomeriggio tardi, c’erano riunioni miste di studenti e operai.
Ricordo poco e le frequentavo poco, non ero fra quelli che si erano buttati a tempo pieno nella politica, però mi è ancora molto presente l’emozione. Sentivo scricchiolare le barriere fra le classi sociali. Era un crepitio continuo, come di sassaiola contro un vetro.
Mi sentivo una privilegiata, confusamente. Ora mi è chiaro.
È stato un privilegio essere stata spinta a 15, 16 anni davanti ai cancelli della fabbrica. Io, figlia di un ingegnere e di una casalinga, liceale con ambizioni poetiche, divoratrice di romanzi, nevroticamente dedita all’esercizio della scrittura, per paura che la vita mi passasse davanti senza farsi afferrare.
Capivo poco, ma vedevo tutto. Vedevo quanto faceva freddo alle 5 del mattino e com’erano vestiti e da dove venivano, quelli che sarebbero stati le “avanguardie operaie” protagoniste del 69. Operai giovani, meridionali, chiamati da parenti già piazzati o mandati dal parroco del paese calabrese o siciliano presso un altro parroco. Erano quello che sono oggi i rumeni.
Però, a differenza dei rumeni, che cercano di cavarsela come possono, avevano un grande orgoglio del loro lavoro, del loro ruolo, del loro posto nella società.
E più orgogliosi diventavano ogni giorno, anche grazie a noi, che gridavamo: la classe operaia deve dirigere tutto.
Potere operaio. Studenti, operai, uniti nella lotta. La Fiat sarà il nostro Vietnam.
Più forte ogni giorno avvertivano, gli operai, la certezza del loro protagonismo.
Producevano. Se si fermavano loro, un Paese intero, sarebbe finito in ginocchio.
Lavorare era duro, era dura la catena di montaggio e non c’erano le tecnologie che rendono oggi la fatica fisica più umana, ma non morivano tutti giorni, non morivano bruciati vivi per assenza di estintori. La loro forza era la loro assicurazione sulla vita. I signori della Tyssen Krupp, la fabbrica dove, 10 anni fa, sono morti in un rogo 5 operai, nel 1968, se la sarebbero vista brutta davvero.
Naturalmente la classe operaia, poi, non riuscì a “dirigere tutto”, ma soltanto a farsi cassintegrare, licenziare, ricattare, ammorbidire in un brodo letale di televendite e intrattenimenti demenziali.
Finì smantellata, la classe operaia, come tante fabbriche, ricostruite poi nel mondo povero, con altri sfruttati, meno esigenti.
Però, nel 68 e nel 69 l’incontro con loro è stata un’esperienza forte.
È stato questo il 68? Un momento di comunicazione fra diversi? Un monumento alla comunicazione fra simili?
Certo è stato la genesi di un “noi”.
Non è facile percepire l’essenza del “noi”, non basta avere 15 anni o 20 o 25 (oltre i 25 si iniziava ad essere sospettati di collusione col nemico, dovevi essere eccezionale per evitare l’ostracismo), non basta essere “gli studenti” o “gli operai” o “le donne” per avere accesso al senso di una appartenenza .
“Noi” è un pronome delicato e accogliente che si forma in presenza di un nemico comune, di incombenti difficoltà collettive o collettive avversioni. Ci vuole un soffio di aria gelida per compattare un “noi”, per dargli solidità
“Noi” è una barricata eretta contro lo strapotere dell’individualismo. Infatti è in via di dissoluzione. In commercio si trova soltanto, oggi, il “noi” miserabile e autodifensivo della famiglia. Noi, i miei, i tuoi. Quell’egoismo da interni surriscaldati che produce nepotismi e intrallazzi fra parenti.
Il Noi del 68, che adesso si è sfatto per anzianità e resiste soltanto in certo patetico lobbismo da ex combattenti, era un noi che presupponeva una scelta di campo: sei con noi o contro di noi?
Ciascuno poi, magari, lo interpretava a modo suo: per me, che ero un’ex–bambina, “noi” era “i buoni”. Cioè: quelli che vogliono una società senza poveri e senza ricchi, dove tutti possono studiare e coltivare il piacere (musica, arte, letteratura, erotismo,contemplazione della bellezza), dove i deboli (malati, vecchi, bambini) vengono sostenuti da una società solidale e caritatevole per senso di giustizia, dove Dio non esiste e la legge morale è dentro di noi (e il cielo stellato è sopra di noi), e la felicità è il frutto naturale della pace e dell’armonia.
I buoni sono quelli che studiano per capire la realtà materiale del mondo com’è, che vogliono capirla per cambiarla.
Per far diventare il mondo “come lo vorremmo”, appunto, noi.