Che l’Italia fosse un Paese vecchio di certo non era un mistero per nessuno. I dati che arrivano ogni anno sulla nostra ormai perenne crisi demografica sono noti ai più, e uno dei ritornelli più noti è proprio “l’Italia non è un Paese per giovani”. Ripetuto non a torto: l’Italia è un Paese in cui l’investimento su università e ricerca è minimo, ed è il penultimo Stato membro dell’Unione per numero di laureati.
Allo stesso tempo, però, l’Italia delle università sembra ancora oggi fare grandissimo affidamento sulle centinaia di migliaia di persone che ogni anno, dopo il diploma (o semplicemente per arricchire la propria cultura e le proprie competenze), decidono di intraprendere una carriera universitaria. Per un motivo molto semplice: da queste immatricolazioni dipende la loro stessa sopravvivenza.
Questo fatto trova forte riscontro nell’ultimo rapporto di Talents Venture, società di consulenza esperta nel mondo dell’università. Nel rapporto si prendono in considerazione le proiezioni dell’ISTAT: con un tasso di immatricolazione pari al 61% più o meno invariato, andrebbe a pesare sulle università la diminuzione degli studenti in età universitaria. Qui il calo sarebbe di circa il 15% nei prossimi vent’anni.
Un po’ di numeri: si rischia di perdere circa 260.000 studenti universitari e, considerando una media di circa 2300 studenti immatricolati per ateneo ogni anno, si rischia la chiusura di ben 17 atenei entro il 2040. Ovviamente il dato peggiore interessa il sud: la variazione nel Mezzogiorno per quanto riguarda gli studenti in età universitaria sarebbe addirittura del -23%, con le conseguenze già descritte sugli atenei.
Le università italiane, quindi, devono prepararsi a una crisi demografica, sapendo però cogliere le occasioni. E le occasioni vengono soprattutto da chi sta affrontando il fenomeno contrario, ovvero un grandissimo boom demografico: come riportato nel report di Talents Venture, nel continente africano, come noto praticamente confinante con l’Italia, ci saranno circa 190 milioni di giovani in età universitaria.
Tuttavia, gli unici a vedere i vantaggi di questa statistica sembrano essere i grandi atenei, che di certo non temono l’estinzione di qui a pochi anni. Sei di queste università (Politecnico di Milano, Università di Bologna, Università di Firenze, Università di Napoli Federico II, La Sapienza di Roma e Università di Padova) hanno contribuito alla nascita della fondazione Italian Higher Education with Africa, iniziativa volta all’internazionalizzazione degli atenei italiani proprio in Africa. È solo attraendo nuovi iscritti, anche e soprattutto grazie alle nuove modalità di frequentazione degli atenei, che gli atenei possono sopravvivere. Soprattutto se, come probabile, gli strumenti e le risorse messe a disposizione dalle istituzioni continuano a non essere sufficienti.
Di sfide, oltretutto, si rischia ce ne siano altre al di là della “morte naturale” degli atenei soprattutto al sud. Da non poco tempo, infatti, i colossi big tech come Google stanno portando avanti dei progetti per riempire il bacino del mercato della formazione, “svuotato” dalla mancanza di iniziativa delle università. Si parla ovviamente di corsi professionalizzanti, ma non solo: la conoscenza e la certificazione di essa potrebbero essere dei progetti in cui queste gigantesche compagnie potrebbero essere interessate, allargando il proprio bacino d’utenza già vastissimo. E sicuramente Google non ha bisogno di nessun processo di internazionalizzazione, al contrario invece degli atenei italiani. Questi, spesso incapaci di portare avanti processi di digitalizzazione e per lo più presi alla sprovvista dalla pandemia, si sono appoggiati in grandissima parte a strutture fornite proprio da colossi come Microsoft (Teams) e Google (Meet).
Insomma, una lotta per la sopravvivenza. La crisi demografica italiana è solo l’ultima delle sfide con cui il mondo delle università si deve confrontare a viso aperto. Ed è un processo che arriva a margine di lunghissimi anni di disinvestimento, oltre che di maggiore autonomia dei singoli enti universitari (la quota premiale, ovvero quella destinata agli atenei più meritevoli, è arrivata a valere il 30% del Fondo di Finanziamento Ordinario delle università; nel 2014 era il 19%).
Che si debbano arrangiare da soli o che debbano arrivare i rinforzi, con un grande piano pubblico per l’università: qualcuno salvi gli atenei.